venerdì 8 novembre 2013

La consapevolezza

Vorrei tanto rendervi partecipe di un pensiero che è probabilmente molto ingenuo e semplice ma a cui forse non si dà molta importanza.
Chi scala da molto tempo entra in una specie di circolo di inconsapevolezza. Il nostro, in fondo, è uno sport ma l'abitudine dell'uso della corda, della caduta, del quasi annullamento del pericolo, ci allontana dalla consapevolezza di quello che facciamo.
Per chiarire meglio questo concetto vi vorrei fare un semplice esempio. Ricordate quando da bambini vi siete arrampicati su un albero o fatto qualche scalata su di un muretto o un masso?
Personalmente ricordo varie sensazioni da queste esperienze, in particolare la consapevolezza del gesto e la paura di cadere. Il fatto di capire che ogni movimento comporta un rischio e che ogni ostacolo superato è una conquista, spesso ci porta ad apprezzare di più l'esperienza che stiamo provando.
Per quanto mi riguarda ho completamente annichilito questo tipo di esperienze e non mi rendo bene conto delle cose che faccio. Ogni tanto, quando salgo una via, penso che potenzialmente la corda non mi sarebbe servita. Poi pensandoci bene, credo che senza la corda non avrei potuto salirla perché non sono disposto a mettere in gioco così tanto e quando penso ad un gesto non sono poi così convinto di riuscirlo a fare.
Istintivamente è molto più semplice.
L'unica situazione in cui penso veramente a quello che sto facendo, anche perché, nonostante le sicurezze, i pericoli oggettivi ci vietano di cadere, è in montagna. Sulle vie lunghe, nonostante le corde ci diano la possibilità di arrampicare in sicurezza, ci sono troppe variabili e la caduta è un opzione che non ci piace prendere in considerazione.
Spero di essere riuscito a farvi capire cosa intendo.
Ora prima di salire, oltre a controllare la corda, il nodo, l'imbrago e la sicura, mi fermerò un momento per pensare a quello che sto facendo, per poi cercare di farne tesoro senza che però mi allontani dal mio obiettivo.
Spero troviate queste considerazioni, forse un po' banali, almeno un pochino interessanti.
Un saluto
AndreONE

lunedì 4 novembre 2013

Simone e l'arrampicata "sostenibile"

 "Caro Andrea, ti vorrei scrivere a proposito del post scritto dal mio amatissimo Paso, in cui mi sono imbattuto casualmente oggi visitando il tuo blog.
Condivido il fastidio che Paso manifesta rispetto ai climber che non puliscono le vie che provano, incuranti del fatto che in questo modo rovinano a qualcun altro il piacere dell’interpretazione della roccia. Ritengo però che il discorso possa essere un po’ ampliato, in particolare rispetto all’ecosostenibilità dell’arrampicata.
Non c’è dubbio che l’arrampicata non sia uno sport a “impatto zero”: raggiungiamo le falesie in macchina – e difficilmente potrebbe essere altrimenti – e ho sentito anche vociferare sul fatto che la produzione di gomma per le scarpette sia particolarmente inquinante nei paesi lontani in cui è localizzata, non so in che misura sia vero.
Penso però che, se non possiamo azzerare l’impatto ambientale della nostra passione, possiamo senz’altro diminuirlo consistentemente. Non di rado ci troviamo in quattro in qualche parcheggio della falesia e abbiamo quattro macchine. Molto spesso, organizzandoci un po’ meglio saremmo potuti venire con due macchine, o anche con una macchina sola, tanto per fare un esempio. O potremmo, nei nostri consumi alpinistici, cercare di premiare quelle ditte che si premurano di ridurre l’impatto del processo di produzione.
Inoltre credo che potremmo considerare l’impatto che arrampicare inevitabilmente comporta come un nostro debito nei confronti della natura. Che potremmo saldare adottando, come molti di noi già fanno, comportamenti più ecosostenibili nella nostra vita quotidiana, al di là dell’arrampicata, prestando un’attenzione maggiore alla provenienza di quello che consumiamo, rifiutando sacchetti di plastica e imballaggi inutili, utilizzando di più le nostre gambe e i mezzi pubblici per spostarci. Ma c’è una ragione per cui credo che – in particolare noi climber – faremmo bene a farlo.
E questa ragione è che noi conosciamo l’indescrivibile bellezza della natura, l’eleganza finissima delle linee sulla roccia, la meraviglia dell’avvicendarsi dei colori e dei profumi nel corso delle stagioni, cui siamo particolarmente esposti passando quanto più possiamo del nostro tempo all’aperto, in falesia. Per me arrampicare significa vivere davvero, proprio perché significa partecipare in modo pieno a questa bellezza della vita.
Proprio perché credo che quasi tutti noi abbiamo coscienza di questa bellezza, credo che sia in primo luogo a noi che spetti di tutelarla. E – se siamo tutti d’accordo che sia compito nostro salvaguardare per gli altri il piacere di fare le vie a vista – non dovremmo tanto di più sentirci in dovere di conservare per quelli che verranno il piacere tanto più grande della bellezza della natura, della bellezza della vita?
Un abbraccio a tutti!
Simone"

Mi sono sentito in dovere di pubblicare questa lettera di Simone perché, oltre a condividerne il contenuto, mi imbatto sempre più spesso in esempi di inciviltà nel mondo dell'arrampicata. Inciviltà che fa persino passare in secondo piano gli argomenti che mi stanno più a cuore e che sono legati al mio modo di vivere l'arrampicata. Dovremmo cercare di essere più civili per il bene di tutti ma soprattutto per il nostro bene! Portiamo via la nostra spazzatura, cerchiamo di essere discreti se dobbiamo andare al bagno, parcheggiamo bene cercando di rispettare gli altri, viaggiamo con meno mezzi possibili... Insomma cerchiamo di pensare agli altri come vorremmo che gli altri pensassero a noi, lasciare i luoghi tanto amati come vorremmo ritrovarli...

Ultimamente tendo a dubitare della buona fede delle persone, eppure sono qui che scrivo queste cose, insieme al Paso, a Simone e a tanti altri che so che la pensano come me...
Cerchiamo di diffondere questi pensieri, e poi non resta che sperare...

AndreONE